Valerio Dehò

My generation

Anche se nato nel 1990 nel capoluogo felsineo, il gruppo artistico che si è denominato Mistiche Nutelle, ha origini antiche che affondano negli anni terminali degli anni Settanta quando a Bologna tardava a spegnersi tra conferenze d’autunno, nuovi filosofi, BR in ritirata, dimenticati i pochi espropri proletari, quel 77 di cui sono rimasti i segni sui muri di via Mascarella. E in ogni caso le Mistiche sono figlie di quella Bologna libera e felice costruita attorno di quella rivoluzione umanistica di cui Il DAMS (1971) di Eco, Squarzina, Maldonado, Barilli, Calabrese, Scabia e altri straordinari intellettuali italiani è stato l’iniziatore. Discepoli di quella vittoria dell’Impero dei segni e della multidisciplinarietà che ha creato un paio di generazioni almeno di ragazzi con un’apertura mentale verso il mondo nuovo della comunicazione e della distanza dalle ansie dell’arte come religione. Hanno ricevuto in dono un mondo pieno di prodotti magnifici ormai traslati nell’empireo del logo, da non confondere con il logos, che resta un’altra cosa.

Dal riflusso (ritorno al privato degli anni Ottanta) al reflusso gastrico iperlipidico tra Nutella e Caprice des dieux, il passo è breve. Bologna la Dotta e la Grassa, si dice ancora con compiacenza. Le Mistiche Nutelle (plurale maiestatis) intercettano lo spirito del luogo accompagnati da quell’etica damsiana fondata sull’ironia (“Anche il culo pensa”) già pienamente dispiegata da quel 77 in cui una radio studentesca era il fulcro di un coordinamento insurrezionale in risposta all’attacco pretestuoso dei gladiatori cossighiani alla cittadella rossa (o rosa). Ma di quella stagione restò in permanenza la presa in giro usata ironicamente contro un potere poliziesco che ammazzava un giovane studente pugliese e cercava di colpire al cuore l’Emilia rossa. “Sarà una risata che vi seppellirà”: è finita così?

Per questo approdare agli anni Novanta a Bologna voleva dire aver metabolizzato competenze ed utopie a bizzeffe, aver elaborato strategie di sopravvivenza multiple, di accumulo e messa in pratica di un sapere mai verticistico e assoluto ma costruito sull’intelligenza e sul dialogo, divertirsi e conoscere erano sinonimi. Gli anticorpi degli anni Settanta erano serviti per superare indenni i dubbi di quel decennio controrivoluzionario e di rappel a l’ordre rappresentato dagli Eigthies con gli intellettuali che erano tornati ad essere tristi e pallidi mentre impazzava l’edonismo reaganiano oltre a un tale Silvio Berlusconi. Questa una sommaria bibliografia: «L’insostenibile leggerezza dell’Essere» di Milan Kundera, «Il pensiero debole» di Gianni Vattimo, «L’impero dell’Effimero» Giles Lipovetsky,, «L’ideologia del traditore» di Achille Bonito Oliva. Sono dei titoli che a sufficienza illustrano un decennio cruciale e confuso. Come ha scritto un attento osservatore e intellettuale irriverente come Roberto D’agostino: “Del resto, lo scavalcamento dei ruoli, la sapienza combinatoria, il desiderio di sedurre, è ben rappresentato e legittimato dalle culture emergenti degli Anni 80: il Post-moderno nell’architettura, la Transavanguardia nella pittura, il pensiero debole nella filosofia, il miraggio del look nelle tribù giovanili, il computer come memoria istantanea, il video come operazione di smontaggio e rimontaggio della realtà. Se non si può opporre l’avanguardia alla tradizione, né l’avvenire al passato, contro gli opposti estremismi, il doppio-gioco dell’Edonismo Reaganiano è allora un tentativo positivo di mettersi in comunicazione con l’astuzia del tempo e l’ambivalenza del presente. E non è singolare che sia toccato proprio a Umberto Eco di diventare con l’intercontinentale e incontinente trionfo popolare del «Nome della rosa» il garante dello slittamento, della doppia identità.” (la Stampa del 6 febbraio 2011).

Le Mistiche Nutelle hanno capito intanto che non bisognava abbattersi troppo e che si poteva rilanciare. Che l’arte è un errore a prenderla troppo sul serio. C’erano già dei gruppi come i pavesi Plumcake che avevano aggiornato il pop al lirismo minimale degli smalti e delle plastiche, alle icone leggere di un universo colorato e stordente. Ma loro avevano anche strumenti semiotici di lettura. Sommavano, e continuano a farlo, il linguaggio visivo e la parola, i titoli calembour e le polisemie etc. indissolubilmente legati all’analisi della società. Guerriglia semiotica? Non certo come negli anni Sessanta della Poesia visiva, ma con la certezza che il mondo deve essere cambiato a partire dal linguaggio.

Non a caso Omar Calabrese scrive subito di loro, probabilmente sollecitato da una offerta di denaro cospicua o da una serie di doni alimentari, inquadrandoli nel concetto di Neobarocco di cui stava costruendo una sua seducente teoria per leggere il mondo contemporaneo. Legge il loro lavoro come un impegno di aggressività semiologica, non privo di conseguenze sulla realtà effettuale. I segni non sono mai completamente innocenti e i loghi sono marchi di quell’allegro campo di detenzione che è la società dei consumi. “La loro tecnica mista non è l’assemblaggio innocente di materiali diversi e eterogenei. Consiste piuttosto in un pastiche, molto aggressivo, di frammenti della cultura di massa e industriale con i frammenti della cultura “alta” tradizionale. In loro osserviamo come primissima componente l’esasperazione del gusto barocco della titolazione, un’esasperazione che conduce il più delle volte ad annullare totalmente il senso. Nel piacere della titolazione si sviluppa un’estetica dell’enigmatico, del concettoso, del doppio senso.” Omar già da subito, nel 1991, battezza la poetica del gruppo, gli dà un’identità, una storia e un destino. E lo adotta per una estetica contemporanea fondata sulla partecipazione del lettore/spettatore, dalla ricerca consapevole e divertente di cercare attraverso una logica indiziaria le meraviglie del piacere estetico sotterrato dal triste minimalismo americano o dalle umane poveriste in grisaglia dal primo vagito esistenziale. C’è vita nell’arte! Così esclamarono in molti ai primi vernissage delle Mistiche Nutelle sorseggiando prosecchi di dubbia qualità ma dalle etichette altisonanti scopiazzate dalle pagine gialle.


Let’s the music play.

Il titolo della mostra prende chiaramente spunto dalla Hit dei Beach Boys “Good vibrations”, esempio imperituro della surf music pubblicato nl 1966 che faceva sognare a molti europei le spiagge californiane e i ragazzi belli, biondi e muscolosi tipo Big Jim, mentre le loro compagne erano delle Barbie che da noi scarseggia(va)no se non in versione remake. E serve a introdurre alla tematica musicale che ogni artista del gruppo ha poi sviluppato singolarmente, come è sempre stata la logica produttiva delle Mistiche Nutelle che lavori collettivi non ne hanno mai fatti. La loro unione è sempre stata cerebrale e di programma estetico, nel rispetto delle proprie storie, preferenze, aderenze, conseguenze. In questo caso da bravi e sapienti comunicatori, hanno creato anche come premessa alla mostra, una serie di finte cover in cui hanno giocato a nascondersi e a prendere in giro. Un percorso iniziatico. O quasi.


Vittorio Dario Broccadello

Il suo Sax trafitto “Ritmario-Martirio (L’ance)”, è costruito sul gioco di parole tra il termine ance, i beccucci per suonare degli strumenti a fiato e le lance che fanno male. Broccadello propone un san Sebastiano musicale da vedere e immaginare. “Giri soli” è invece una installazione dischi di vinili che diventano dei girasoli. L’omaggio a Giorgio Gaber, intellettuale anarchico prestato alla musica, parte dai contorni della sua figura, sagomati dalle linee di un elettroencefalogramma. Il titolo “Goganga”, brano dello stesso Gaber era una sorta di ecolalia infantile fatta per sottolineare le assurdità del linguaggio, la libertà di fare dei versi come un primate o un infante alle prime armi con il linguaggio. Presa in giro garbata quanto radicale dei tic di una società sempre più ricca e sempre più scema.


Oscar Baccilieri

L’artista ha sviluppato alcuni progetti con modalità differenti, ma sempre partendo dalla sua tecnica di dipingere su dischetti di carta vetrata che vengono poi assemblati assieme per la composizione delle opere. Nel primo l’aspetto essenziale è il recupero non solo del vinile, ma anche dei piatti e giradischi che servivano e servono per suonare i dischi. Naturalmente ne nasce anche una compilation personale strutturata alla vecchia con dieci dischi impilati uno sull’altro in attesa di cascare nel piatto e prendere suono. Una sorta di juke box domestico. I temi recuperati abbracciano in tre opere tutta la musica dal Punk alla lirica. Una svisata di chitarra rock, un vecchio grammofono per una madama Butterfly riconoscibile, spille da balia e ritratto di Elisabetta II a memoria dell’inno britannico suonato dai Sex Pistols. Baccelieri ci tiene alla storia e si vede. Anche i panini imbottiti hanno questa ampiezza musicale in “Sono cresciuto a pane e…”. Il vinile sostituisce il salame, in una merenda immaginaria che probabilmente la mamma di Baccilieri non gli ha mai somministrato. L’ultimo progetto parte dalle cover dei long playing, che facevano parte dell’immaginario collettivo e di una nuova grafica che si diffondeva nel mondo tramite la musica. Sicuramente le copertine dei dischi hanno rappresentato il diaframma tra i giovani ascoltatori e il mondo dell’arte e della creatività, basti pensare a quelle di Warhol (ne ha disegnate 40) o Peter Blake (Sgt. Pepper’s per tutti).


Mauro Luccarini

Il suo lavoro recupera l’emozione dell’ascoltare musica, dell’immedesimarsi in storie e personaggi lontani che la musica riusciva ad avvicinare nello spazio e nel tempo. L’uso raffinato delle matite dermatografiche su supporto di legno con l’intervento un mordente per colorare parti dell’immagine, costruiscono delle opere che rispecchiano la quadratura della forma-disco, ma sono delle composizioni autonome di emozioni e ricordi fusi insieme. Gli U2 di “Sundayblacksunday” si iconizzano in un occhio sanguinante o “Stawwberryfieldforever” è una fragola che assume la funzione di mappamondo. Questi lavori sono delle sorta di altercover, illustrazioni di uno stato d’animo oltre che dei titoli come in “Purple rain” in cui la pioggia viene fuori dal parapluie o in “White rabbit”, hit lisergica degli Jefferson Airplain, che diventa una maschera da coniglio con due capsule medicinali al posto delle pupille. Luccarini propone il suo best of ripensandone la grafica, rendendo omaggio ai suoi miti.


Maurizio Mantovi

L’aspetto biografico entra anche nei lavori di Mantovi in cui i ritratti dei musicisti vengo tradotti nel linguaggio di alcuni artisti contemporanei. C’è per esempio un Jimi Hendrix che viene trasformato in un’opera di Pollock. I titoli mettono insieme i due elementi musicale e iconografico, “Jimi Pollock”, “Janis Warhol”, “Jim Hopper” in modo che l’universo musicale trova una sorta di eco in quello estetico secondo le idee e le associazioni emotive espresse dall’artista. Anche l’indimenticabile “Video killed the radio star” si trasforma diventa in una serie di stampe su tubo catodico di frames tratti da clip musicali diffusi durante i primordi della rete. Un lavoro di ricerca e di rielaborazione complesso che esce dalla rielaborazione documentaria attraverso una rilettura personale. Naturalmente si tratta di opere e autori basilari nella storia della musica pop rock ma certamente il taglio resta saldato ai propri ricordi. Non manca un riferimento alla cultura psichedelica con un pannello di campionature di trame optical per uno sballo affasciante e coinvolgente in tutta sicurezza.


Adriano Tetti

Il riscatto dei calembour è chiaro nel lavoro di Adriano Tetti a cominciare da un “24 mila baci” (1963) in cui le labbra simbolicamente chiuse a bacio appunto, ricompongono l’immagine del cantante, che è Adriano Celentano, il nostro rocchettaro de noantri. Tetti largheggia in temporalità ma predilige gli anni Sessanta. La bambolina di Michel Polnareff che dice sempre di no del 1966, si concretizza in un quasi automa dedito al diniego sistematico. “Love is in the hair” (1978) diventa un cuore pelosetto con la scritta “vera pelle d’oca”, fissato su di un reticolo metallico piuttosto arieggiato. Ma Tetti si avvicina ai giorni nostri con i Lunapop e la loro hit “50 special” giocando sul doppio in “Rattopo” evidenziato dalla camera d’aria rattoppata di uno scooter appesa su di un supporto ligneo con contorno di college vespistici. Tetti sfonda il muro del tempo, si spinge verso ricordi collettivi oltre che propri, anche perché la colonna sonora della nostra vita, spesso la decidono gli altri.